Tradurre la Bibbia significa rideterminare il significato delle parole di una lingua con parole di un’altra. La traduzione delle Scritture fa parte del lavoro di interpretazione e comunicazione delle parole delle lingue originali contenute nei manoscritti biblici (ebraico, aramaico e greco) in un’altra lingua, come l’italiano.

Le traduzioni della Bibbia non sono nuove. Nel III secolo a.C., gli ebrei produssero la cosiddetta Septuaginta, una traduzione greca dell’Antico Testamento ebraico per gli ebrei di lingua greca che vivevano ad Alessandria, in Egitto, molti dei quali non erano in grado di leggere e comprendere la lingua dell’Antico Testamento.

Oggi la Bibbia, tra testi completi e singole porzioni, è stata tradotta in oltre 3400 lingue.

Ogni traduzione deve bilanciarsi tra due obiettivi: rimanere fedeli alla formulazione della lingua originale e cercare di essere comprensibile nella lingua dei lettori.

La Bibbia non è un testo come gli altri, quindi questi due obiettivi vanno perseguiti con molta cura.

A seconda del bilanciamento che ogni versione raggiunge rispetto a questi due obiettivi, si classificano le diverse traduzioni della Bibbia.

Le traduzioni che privilegiano la fedeltà alla struttura delle scritture originali si definiscono a equivalenza formale, quelle che privilegiano la leggibilità nel linguaggio e nel contesto moderno si definiscono a equivalenza dinamica.

La Bibbia R2, le cui radici sono nella Diodati e nella Riveduta, appartiene alla famiglia delle Bibbie a equivalenza formale.

Perché l’equivalenza formale

Alcune versioni della Bibbia hanno seguito una filosofia di traduzione “pensiero per pensiero” piuttosto che “parola per parola”, enfatizzando l’equivalenza dinamica, piuttosto che il significato “essenzialmente letterale” dell’originale.

Una traduzione “pensiero per pensiero”, a equivalenza dinamica, è necessariamente più incline a riflettere le interpretazioni del traduttore e ad adattarsi alle esigenze della cultura contemporanea.

Le versioni della Bibbia a equivalenza formale danno priorità, nei limiti imposti dalla lingua italiana, alla maggior aderenza possibile alla struttura delle lingue originali.

La R2, nel solco di tutte le versioni che hanno segnato la storia evangelica italiana (la Diodati, la Riveduta, la Nuova Riveduta) cerca di rimanere “il più letterale possibile”, sforzandosi di avere allo stesso tempo chiarezza espressiva e mantenere caratteristiche letterarie uniche (come l’uso della parola Eterno per tradurre il tetragramma YHWH).

Questo, ad esempio, è il motivo per cui i pesi e le misure che si trovano nel testo biblico sono quelli effettivamente usati dai protagonisti delle cronache bibliche (lasciando che le misure moderne siano riportate nelle note a pié di pagina o in una tabella di conversione al di fuori del testo biblico).

Le versioni a equivalenza formale sono più difficili?

C’è un vuoto di migliaia di anni tra oggi e l’epoca in cui gli sono stati redatti i manoscritti originali. La nostra cultura odierna è profondamente diversa da quella in cui sono vissuti Abramo, Mosè, Davide, Geremia, Gesù e gli apostoli.

All’epoca esistevano modi di dire, artefatti culturali e usanze a noi non immediatamente comprensibili.

Quindi, ovviamente, alcune parole o frasi nelle traduzioni ad equivalenza formale, privilegiando l’aderenza alla struttura del testo originale, a prima vista possono sembrare più ardue da leggere o più complicate da capire nel nostro contesto culturale.

L’esempio di Giovanni 3:16: unigenito, non semplicemente unico

Un esempio di questi approccio, questa volta di carattere linguistico, si può trovare nel famoso versetto di Giovanni 3:16.

Le versioni a equivalenza formale (come la R2, la Nuova Riveduta o la CEI) parlano di Gesù come “unigenito”, le versioni a equivalenza dinamica (come la Bibbia della Gioia, la Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente o la Nuova Traduzione Vivente) traducono “unico”.

Il termine originale greco monogenes (μονογενής) significa “essere l’unico del suo genere all’interno di una specifica relazione” e “”riguardante l’essere unico del suo genere o della sua classe, unico in genere”[1] e quindi il termine “unigenito”, seppure meno usato nel linguaggio corrente, fa capire meglio che Gesù non è soltanto “unico” ma anche di un genere unico, una natura unica, in una relazione unica con Dio padre, mettendo in risalto la sua divinità.

Giovanni è l’unico scrittore che usa questa parola in riferimento a Gesù (vedi Giovanni 1:14, 18; 3:16, 18; I Giovanni 4:9), proprio per ribadire che Gesù era il Figlio di Dio (Giovanni 20:31), e utilizzò questo termine per evidenziare come Gesù condivida la stessa natura divina di Dio, a differenza dei credenti che sono figli e figlie di Dio per mezzo della fede.

Nel contesto storico in cui scriveva Giovanni questa definizione servì a rigettare le eresie che si stavano infiltrando nelle chiese e negavano la divinità di Cristo. Oggi evidenziare l’uso di questo singolo termine è utile contro tutte quelle correnti di pensiero che, anche distorcendo la Scrittura, affermano che Gesù non è Dio.

L’uso di questo termine nelle Bibbie in italiano ha avuto un impatto diretto anche sulla nostra lingua. Nei dizionari più autorevoli (come il Treccani, il Sabatini Coletti, l’Hoepli o il De Mauro) il termine “unigenito” è, per antonomasia, riferito al Signore Gesù.

Un ostacolo alla comprensione e alla diffusione della Bibbia?

Usare una versione a equivalenza formale ha reso più difficile la comprensione, la lettura e la diffusione della Parola di Dio?

La storia ci dice di no.

Da oltre 400 anni le versioni usate in ambito evangelico italiano, tutte a equivalenza formale, non hanno costituito un limite o un impedimento alla diffusione della Bibbia, che è stata letta, studiata e distribuita in milioni e milioni di copie.

Le versioni a equivalenza formale sono passate tra le mani di contadini poco alfabetizzati e di illustri accademici.

Tutti, a prescindere dalla propria età e preparazione, hanno potuto comprenderla, studiarla, conoscerla sempre di più ed essere trasformati dal suo messaggio.

 

 


[1]Definizione di μονογενής tratta dal “Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature” di Walter Bauer, Frederik William Danker, William Frederik Arndt, Felix Wilbur Gingrich.